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LE STORIE DEL MEDAGLIERE

 

 

 

 

 

LA STORIA IN SCATOLA

“Da Ratisbona a...Mentana”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Correva il 23 d’aprile dell’anno 1809, Napoleone davanti Ratisbona, Regensburg per i tedeschi, città bavarese alla confluenza del Regen col Danubio, ne osserva le mura.

Accompagnato dal maresciallo Jean Lannes (1769-1809) cammina veloce, la redingote grigia ed il fatale bicorno appaiono e scompaiono tra la polvere nella confusione dei reggimenti in movimento, nel trapestio di uomini, cavalli e mezzi, che si posizionano pronti ad assaltare le mura, di tanto in tanto l’Imperatore si arresta e punta le lenti del suo cannocchiale sulle fortificazioni, vecchie e malandate ma pur sempre robuste, dell’antica città. Non era soddisfatto, e questo risultava evidente al codazzo di aiutanti di campo che lo seguiva sempre pronto ad eventuali ordini.

Pur avendo vinto più volte l’esercito austriaco negli ultimi cinque giorni, il 20 aprile ad Abensberg, il 21 a Landshut, il 22 a Eckmuhl, quella campagna non era iniziata nel migliore dei modi: tanto per cominciare, il maresciallo Alexandre Berthier (1753-1815), nominato Comandante in capo ad interim in sua sostituzione e fino al suo arrivo da Parigi, aveva fatto una gran bella confusione tra ordini e contrordini tanto da fare imbestialire il suo collega Nicolas Davout (1770-1823), senza contare che si trovava impelagato in quella nuova guerra senza che lui l’avesse voluta, gli era stata dichiarata, d’improvviso, dall’Austria, il 9 d’aprile. Lui la sua gatta da pelare l’aveva già in Spagna: una sporca e feroce guerra che lo opponeva alla popolazione locale aizzata dalla pretaglia e dagli inglesi, un esercito di 20.000 uomini perduto a Bailen nel luglio precedente, i suoi marescialli incapaci di gestire la situazione, “L’esercito sembra guidato da ispettori delle poste”, aveva scritto al fratello Giuseppe che di Spagna era Re, mezza Europa che aveva rizzato le orecchie al risapere di quella sconfitta campale. Ci era andato lui a raddrizzare le cose: arrivato in Spagna ai primi di novembre e spezzata la resistenza spagnola, il 4 dicembre era entrato da vincitore in una Madrid deserta ma già ai primi di gennaio si vide costretto ad abbandonare l’inseguimento degli inglesi del Generale Moore per correre a Parigi: l’Austria si dichiara sul piede di guerra e, tanto per cambiare, Fouché e Talleyrand tramano alle sue spalle.

Quelle mura di Ratisbona lo preoccupavano: non aveva tempo per mettere in atto le canoniche tecniche d’assedio, fatte di scavi di trincee e di mine e di bombardamenti di artiglieria e di brecce, ci avrebbe messo troppo tempo e l’Arciduca Carlo, comandante in capo dell’esercito austriaco, seppur sconfitto, avrebbe avuto tutto il tempo necessario ad attraversare il Danubio e portare l’esercito in Boemia, no quelle mura, già in mano francese, ma il colonnello Coutard lasciato a presidiarle con soli 2.000 soldati era stato costretto ad arrendersi senza neanche poter distruggere il ponte, andavano prese d’assalto. Ma con quale esercito?

Quello che aveva per le mani non era dei migliori. Le truppe migliori erano in Spagna e lui di fronte all’urgenza della situazione aveva dovuto improvvisare un esercito anticipando le classi di leva e rastrellando tutto quanto era possibile trovare nei depositi reggimentali; aveva dato un’indiscutibile prova di grande capacità organizzativa ma i coscritti mandati al fronte vi giunsero senza alcun addestramento. Come prendere d’assalto quelle mura avendo a disposizione una fanteria scadente? Verso la fine della campagna, ed infatti Wagram fu una battaglia di artiglierie, dovette coprire le deficienze, inevitabili nel manovrare con truppe inesperte, aumentando l’assegnazione dei cannoni ai reggimenti ed ai corpi d’armata: “Peggiori sono le truppe maggiore è il numero dei cannoni ch’esse richiedono”, così scrive a Clarke,  ministro della guerra.

Ma Ratisbona andava presa e velocemente e senza fuoco d’artiglieria e per più motivi: restare fermi a lungo sotto le sue mura avrebbe dato tempo alla Prussia, ed a qualche altro staterello tedesco in dissenso, di entrare nel conflitto; magari un anticipato risveglio del nazionalismo tedesco avrebbe potuto generare una nuova cruenta guerriglia sull’esempio di quella in corso in Spagna e, infine, lasciarsi Ratisbona alle spalle, senza conquistarla, avrebbe favorito il nemico con una base operativa dalla quale lanciare attacchi alle retrovie francesi con grave rischio per le linee di comunicazione.

Era proprio di questo che stava a ragionare con Lannes, sbirciando di tanto in tanto col cannocchiale le mura assembrate di difensori, ed è proprio a lui che decise di affidare il compito di prendere le

mura d’assalto utilizzando semplici           scale e rassegnandosi ad un elevato numero di perdite. Intanto, alcuni pezzi da dodici ed alcuni obici avevano fatto crollare una casa costruita a ridosso del fossato colmandolo, questo fece aumentare d’intensità lo scambio di fucileria tra gli assedianti ed i difensori delle mura e fu proprio in quel momento che una palla fredda, un proiettile che non

aveva ancora terminato la sua corsa a terra, lo colpì ferendolo all’ alluce del piede sinistro. Una contusione molto dolorosa ma che non gli fece perdere l’autocontrollo: “Sono stato colpito. Sarà stato un tirolese, quella è gente abile”, questo il suo unico commento. Immediatamente, corsa la notizia del ferimento, una folla di soldati gli si strinse intorno per proteggerlo e per prendere direttamente visione delle sue effettive condizioni di salute.

Abbiamo modo di osservare la descrizione di questo frangente della battaglia su un quadro di Pierre-Claude Gautherot (1769-1825) “Napoleone ferito davanti alle mura di Ratisbona” conservato al Musée de l'Histoire de France, Château de Versailles: le mura della città restano sullo sfondo distinguibili tra i fumi degli incendi, l’intera scena ruota con un gran movimento concentrico intorno alla figura centrale di Napoleone, ussari e corazzieri arrivano precipitosamente a sincerarsi dell’incolumità dell’Imperatore, il fidato Roustam, lo si intravede dietro il cavallo, calma l‘animale con una mano mentre con l’altra sorregge l’imperiale bicorno, l’energia del quadro è tutta concentrata nello slancio di Napoleone che col piede sinistro già sulla staffa fa fretta al chirurgo Yvan che inginocchiato sta medicandogli il piede contuso; il destro anziché il sinistro per esigenze di impostazione della scena pittorica. Napoleone ha fretta di rimontare a cavallo, vuole che sia evidente a tutto l’esercito che il danno fisico subito è trascurabile e che, comunque, resta sempre in grado di condurre le operazioni militari. Medicato quanto possibile eccolo cavalcare davanti alle divisioni schierate e tra le acclamazioni trova anche il tempo di fermarsi per assegnare decorazioni e rendite ai migliori segnalati dagli ufficiali reggimentali.

E’ innegabile che Napoleone, da grande comunicatore qual è sempre stato, abbia voluto cogliere al volo l’occasione per un’abile trovata promozionale sfruttando l’emozione collettiva causata dal suo ferimento, ma è parimenti innegabile che egli abbia sempre mostrato un proprio coraggio personale coniugato ad una certa dose di fatalismo, in quella come in altre occasioni.

Napoleone era uomo di guerra, un militare, la sua formazione giovanile l’aveva fatta in due Accademie, alla Scuola militare di Brienne-Le Chateau ed alla Regia Scuola militare di Parigi, si era culturalmente forgiato sui classici latini e sulla letteratura epica esaltanti il coraggio ed il valore in battaglia tenuti in considerazione al pari dei più alti valori morali, aveva assorbito, dalla società

francese, mutata dalla Rivoluzione, i valori repubblicani per i quali patriottismo e virtù guerriera erano conditio sine qua non della citoyenneté, condivideva, infine queste virtù con tutti i suoi compagni d’arme che non si sono certo risparmiati: vogliamo ricordare, come esempio significativo, il Maresciallo Charles Oudinot (1767-1847) che al termine della sua lunga carriera militare durata 46 anni era sopravvissuto a 36 ferite d’ arma da fuoco e da taglio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A Napoleone non mancarono certo le occasioni per mostrare il suo personale coraggio: il 17 dicembre 1793, all’assedio di Tolone, durante l’assalto al forte Mulgrave gli venne ucciso il cavallo durante l’azione e nella successiva bagarre restò ferito ad una coscia da una picca, medicato da Francois Hernandez, aiuto chirurgo della marina, passerà il resto della giornata a sistemare nuove batterie di cannoni; al ponte di Arcole, 15 settembre 1796, durante l’assalto al ponte, una fucilata austriaca a lui diretta fu volutamente intercettata da Jean-Baptiste Muiron (1774-1796) che morì al suo posto; nella stessa campagna del 1809, il 6 luglio secondo giorno a Wagram, arrampicatosi con una scala su un albero per osservare il campo di battaglia dall’alto tra un formidabile ronzio di palle, fu costretto a scendere dai suoi soldati che minacciarono di smettere di combattere se non si fosse tolto dal pericolo; il 25 ottobre del 1812, il giorno dopo la battaglia di Malojaroslavec, circondato da un orda di cosacchi corse il rischio di restare ucciso o catturato e fu fatto salvo dalla strenua resistenza agita dai suoi ufficiali d’ordinanza e dalla Guardia. Il sergente Bourgogne, presente ai fatti, ce ne lascia una vivida testimonianza: “Io ricordo che, dopo questo incidente, l’Imperatore stava parlando con Murat, ridendo del fatto di essersela cavata per miracolo”.

Nel quadro di Pierre-Claude Gautherot (1769-1825), pittore allievo di Jacques-Louis David e nella cerchia degli artisti oggetto di commissioni imperiali, Napoleone, solitamente raffigurato in modo inespressivo e ieratico, è qui mostrato sofferente e, per questo, con un portato di umanità che lo avvicina e lo rende eguale all’ultimo dei soldati del suo esercito, questo il messaggio veicolato in questo caso dal sistema culturale della propaganda imperiale: l’Imperatore non è che un soldato, qualunque soldato può diventare Maresciallo, tutti partecipano di una vita e di un destino comune che tutti affratella nella democrazia delle armi, dall’Imperatore all’ultimo tamburino.

Ma torniamo a Ratisbona. E per vedere com’è andata a finire seguiamo il racconto lasciatoci da Marcellin de Marbot (1782-1854) eroe delle guerre napoleoniche, cinque volte ferito ad Eylau, ma anche una delle più felici penne tra quanti scrissero e descrissero l’epopea. In armi sotto le mura di Ratisbona ci lascia un puntuale racconto degli avvenimenti nei suoi “Mémoires du General Baron Marbot” editi postumi in tre volumi da Plon nel 1891: Lannes al comando, i primi due tentativi di avvicinarsi alle mura fallirono causando la morte o il ferimento di quasi tutti i volontari che si erano offerti per il primo assalto. Mancandone di nuovi, Lannes, furioso, afferrò egli stesso una scala e si diresse verso le mura apostrofando i presenti: “Ebbene, ora vi farò vedere come prima ancora di essere Maresciallo sono stato un granatiere, e che lo sono ancora!”. A queste parole tutta la divisione si mosse all’assalto. Charles de la Bédoyère (1786-1815) e Marbot, entrambi ufficiali al seguito di Lannes, arrivarono per primi e contemporaneamente in cima ai bastioni tra le acclamazioni dell’esercito: ”Ce fut un des plus beaux jours de ma vie!”, ricorderà Marbot nei suoi Memoirs.

Ratisbona presa venne saccheggiata, Coutard ed i suoi liberati, il ponte, tagliato dagli austriaci, riparato; in un proclama all’esercito, il giorno dopo, Napoleone dirà: ”Il nemico, spaventato e sconfitto fugge in disordine, la mia avanguardia ha già superato l’Inn. Prima di un mese saremo a Vienna”. Il 13 maggio i granatieri di Oudinot ne presero in consegna una delle porte e, nel corso della mattinata, progressivamente, l’intera città fu occupata dall’Armée. Il 5 ed il 6 luglio, a Wagram nella piana di Marchfeld, Napoleone regolò il conto all’Arciduca Carlo concludendo con questa vittoria la guerra della quinta Coalizione.

Eletto Presidente della Repubblica con quasi 6 milioni di voti nelle elezioni del dicembre 1848 Napoleone III diverrà terzo Imperatore dei francesi dopo il colpo di stato del 2 dicembre 1851. La grande popolarità che gli permise di vincere quelle elezioni, e che confermò l’adesione dei francesi all’Impero con sette milioni e mezzo di voti a favore nel plebiscito del 20-21 dicembre dello stesso anno, gli fu garantita, sopratutto, dalla sopravvivenza del mito napoleonico nella società in special modo tra i ceti popolari delle zone rurali della Francia profonda.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ad assicurare l’ascesa al potere del nuovo Imperatore fu il nome che portava con orgoglio e l’associato ricordo del grande zio deceduto trenta anni prima a Sant’Elena. Trenta anni che non erano trascorsi invano per quanti, nostalgici della passata gloria imperiale, avevano tramato più o meno nell’ombra o lavorato politicamente perché si arrivasse ad una Restaurazione dell’Impero nel nome del suo fondatore: Napoleone Bonaparte. Nei trent’anni appena trascorsi la società francese era stata capillarmente interessata dalla diffusione del Mito letto riletto e tramandato nei suoi simboli e nelle sue immagini canoniche ripetute all’infinito nella cultura popolare attraverso una miriade di oggetti. Questa presenza continua e stereotipizzata delle immagini rievocanti l’epopea erano servite a generare un’identità

collettiva, pervasiva tra i più differenti ceti sociali, dal proletariato rurale ed urbano al medio ceto fino alla borghesia imprenditoriale. La cultura delle immagini aveva garantito funzione identitaria, unità culturale e politica, e supporto motivazionale agli scossoni rivoluzionari che erano serviti a mandare in soffitta la monarchia per diritto divino e quella costituzionale e, infine, avevano condotto il paese ad una seconda, temporalmente breve, Repubblica e successivamente ad un nuovo cambio di regime con la Restaurazione del II Impero.

Il Mito di Napoleone, agito clandestinamente sotto il regno degli ultimi Borboni di Francia, tollerato ed in una certa misura promosso dalla monarchia orleanista è da considerarsi una determinante variabile politica nella storia politica e sociale della Francia tra i due Imperi; tornato in auge l’Impero, il Mito avrebbe subito un nuovo cambio di passo istituzionalizzandosi: il Souvenir Napoléonien avrebbe riscoperto l’ufficialità dell’industria culturale di Stato ed avrebbe contribuito alla saldatura, nell’immaginario collettivo, tra la vecchia e la nuova narrazione dei due miti imperiali, tra il vecchio ed il nuovo regime, nel sottinteso che la malaugurata parentesi dei trent’anni appena trascorsi sarebbe stata da considerare solo una inopportuna e temporanea interruzione di una grande Storia cominciata il 18 maggio 1804.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ai 405.000 superstiti delle armate che avevano combattuto per l’onore della Francia e sotto le bandiere del Primo Impero tra il 1792 ed il 1815, a partire dal 1857, venne distribuita la Medaglia di Sant’Elena; gli stessi vennero periodicamente onorati nelle ricorrenze ufficiali governative con disposizioni che dalle Prefetture giungevano ai Sindaci delle città e dei villaggi; un profluvio di memorie militari della grande epopea andò in stampa e la memoria degli eventi eclatanti del passato fu ricordata con i mezzi più diversi, dalle stampe popolari vendute per pochi centesimi alle rappresentazioni teatrali che

dai palcoscenici di tutto il paese riversavano la Grandeur del passato in quella che si voleva presente. L’iconografia che era stata del Primo Impero, proprio per rimarcare la continuità ideale col Secondo, venne ripresa a piene mani e riversata su una miriade di oggetti che se da un lato evocano il passato dall’altro celebrano il presente utilizzandone il doppio flusso emotivo per   legare al regime le nuove generazioni. Sulle tabacchiere tornano d’obbligo i profili coronati di lauro, le aquile, la prima e la seconda famiglia imperiale, la celebrazione degli eventi più recenti e delle più famose battaglie riprese dai grandi tableaux realizzati, tra il 1805 ed il 1815, su commissione imperiale. Utilizzando i nuovi materiali e le nuove tecniche produttive messe a disposizione dalla scienza applicata all’industria vennero realizzate differenti serie di boite à priser/à musique che modernizzarono la produzione della classica tabacchiera reinventando la tabacchiera musicale già apparsa a metà del XVIII secolo, età d’oro degli automatismi e delle curiosità meccaniche.

Nel 1839 l’inventore americano Charles Goodyear (1800-1860) inventò e mise a punto il processo di vulcanizzazione del caucciù ottenendo l’ebanite, un nuovo materiale resistente, versatile e soprattutto facilmente lavorabile a stampaggio, che il fratello Nelson farà brevettare e commercializzare a partire dal 1851. L’aspetto di queste boites ricorda molto, per colore e formato, quello delle tabacchiere in corno molto diffuse nel decennio precedente ma con la fondamentale differenza che mentre le prime erano unicamente frutto di una produzione artigianale e quindi limitata le seconde, grazie alla tecnica produttiva a stampaggio da un cliché originario, consentivano di ottenere, ad un costo inferiore, un maggior numero di pezzi prodotti industrialmente in laboratori specializzati.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La scatola in ebanite veniva trasformata in scatola musicale tramite il successivo montaggio di un meccanismo sonoro, una serie di lamelle d’acciaio disposte a pettine che vibrano scorrendo su un cilindro dotato di piccoli spunzoni predisposti in modo da produrre una melodia, prodotto altrove in laboratori di orologeria. Tra il coperchio del vano inglobante il meccanismo ed il coperchio della scatola restava ricavato uno spazio contenitore del tabacco per questi oggetti il cui uso era da tavolo. La tecnica dello stampaggio da cliché, inoltre, permetteva una maggiore precisione del dettaglio e una resa dell’immagine meglio definita, più raffinata e priva delle ingenuità formali della produzione artigianale. I motivi si ripetono tanto che le tabacchiere in corno paiono prese a modello per la nuova produzione: il ritorno a Parigi delle spoglie dell’Imperatore, ad esempio, e l’imponente funerale di cui la città fu testimone il 15 dicembre 1840 divenne tema di stampe e tabacchiere e oggetto di nuovo interesse per le boites à musique; negli anni 40 il Retour des cendres, l’ultimo viaggio dell’Imperatore da Sant’Elena alle rive della Senna, costituì in tutte le sue fasi un soggetto privilegiato di rappresentazione per stampe e tabacchiere che ne testimoniarono, canalizzando l’emotività affettiva di reduci e nostalgici, il percorso dall’imbarco del catafalco sulla Belle Poule, al viaggio lungo la Senna, all’immenso corteo funebre fino a Les Invalides.

 

Tra le boites ispirate ai grandi quadri di storia questa che riporta il dipinto di Pierre-Claude Gautherot “Napoleone ferito davanti alle mura di Ratisbona” ci riserva una sorpresa: il meccanismo musicale restaurato e perfettamente funzionante, a distanza di quasi due secoli, rivela una doppia melodia musicale di cui la prima è una tra le più classiche ed antiche chanson popolari francesi: “Malbrough s'en va-t-en guerre”, conosciuta anche come “Mort et convoi de l'invincible Malbrough”. Il testo, composto nel XVIII secolo, è una canzonatura dell’inglese John Churchill primo Duca di Marlborough, Malbrouk per i francesi, che, ferito nella battaglia combattuta a Malplaquet l’11 settembre 1709, viene dato per morto nel testo della canzone.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La moglie, incredula ed inconsolabile, è descritta in una triste quanto inutile attesa. La leggenda vuole che il testo popolare della canzone sia stato portato alla corte del Re di Francia dalla nutrice del Delfino e che, ascoltatone il canto, la Regina Marie- Antoinette l’abbia musicato ella stessa al clavicembalo. Diffusasi velocemente a corte la chanson divenne in breve tempo molto popolare come chanson pour les enfants ed il tema venne ripreso e rappresentato a stampa su una miriade di oggetti.

Questa boite fa un preciso riferimento all’Imperatore Napoleone non solo per l’episodio del suo ferimento sotto le mura di Ratisbona, stampato sul coperchio, ma soprattutto perché è noto che egli fischiettasse la melodia del Malbrouk al momento del suo passaggio del Niemen il 22 giugno 1812.

Altro riferimento al ciclo delle Battaglie e dei grandi dipinti realizzati durante il Primo Impero lo ritroviamo sul coperchio di questa boite dove è possibile vedere la parte centrale del quadro “Napoleone a cavallo alla battaglia di Austerlitz” messo su tela da Francois Gérard (1770-1837) conservato al Musée de l'Histoire de France, Château de Versailles, Galérie des batailles.

Ciò che, però, è   più interessante in questa boite sono le melodie ivi racchiuse, due melodie di due celebri compositori italiani la marcia del Nabucco di Giuseppe Verdi (1813-1901) e la romanza Il Bacio di Luigi Arditi (1822-1903).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Se il primo compositore è universalmente noto e tutt’ora apprezzato nei teatri di tutto il mondo il secondo, oggi noto solo ad una ristretta cerchia di appassionati melomani, è stato nella seconda metà dell’ottocento un apprezzatissimo musicista, compositore e direttore d’orchestra di fama mondiale avendo curato e diretto la produzione artistica dei migliori teatri a Cuba, nell’America del nord, in

Francia ed Inghilterra. L’accostamento dei due compositori su una boite a soggetto napoleonico, la più famosa e geniale vittoria dell’Imperatore, la Battaglia di Austerlitz, ci consente, nell’indagare l’oggetto, qualche interessante riflessione.

Partiamo da Verdi. E’ risaputo: Giuseppe Verdi è stato un personaggio simbolo del Risorgimento italiano e dell’amor patrio per la nostra nazione negli anni decisivi della sua formazione che coincise con la liberazione dal giogo straniero, aderì agli ideali risorgimentali passando da una posizione genericamente anticlericale a posizioni, dopo l’incontro con Mazzini avvenuto a Londra nel 1847, decisamente repubblicane; nel 1831 aveva tentato l’arruolamento nella Guardia nazionale e nel 1859 dette il suo contributo alla causa acquistando fucili per i volontari e promuovendo pubbliche raccolte di fondi a sostegno delle famiglie dei caduti. La sua fama di compositore, superati i confini nazionali, era molto diffusa presso il pubblico francese: la prima del Nabucco, opera del 1842, rappresentata a Parigi nel 1845, era stata un successo e, il 10 agosto 1852, il nostro Verdi ricevette la Croce di Cavaliere della Legion d’Onore da Luigi Napoleone ancora e fino al 2 dicembre dello stesso anno Presidente della Repubblica francese. Dalla fine del 1853 al 1857 risiedette quasi ininterrottamente a Parigi in ottimi rapporti personali con la famiglia imperiale che, nel 1856, lo ospitò nella residenza ufficiale della Corte a Compiegne. I rapporti tra Verdi e Napoleone III finirono per guastarsi dopo i due attentati subiti dall’Imperatore per mano di patrioti italiani: quello di Giovanni Pianori il 28 aprile 1855 e il successivo di Felice Orsini il 14 gennaio 1858. Napoleone III, ad effetto delle misure repressive adottate a seguito degli attentati, strinse le maglie della censura che colpirono anche i libretti d’opera di due delle opere più famose di Verdi: il Rigoletto ed il Ballo in maschera accusati di istigare all’odio contro il potere costituito. Verdi si infuriò per l’Armistizio di Villafranca, 11 luglio 1859, che considerò un tradimento delle aspirazioni e delle aspettative dell’Italia e per la rinnovata protezione francese allo Stato pontificio.

Se il patriottismo di Giuseppe Verdi era noto a tutti non lo era da meno quello di Luigi Arditi. Violinista, compositore e grande interprete dell’opera verdiana aveva diretto i maggiori cantanti sul palcoscenico dei teatri più importanti dei due emisferi. Fu proprio per la soprano Marietta Piccolomini (1834-1899) grande interprete della Traviata verdiana a Parigi nel 1856, che l’Arditi compose a Brighton nel 1860, su un testo del baritono Gottardo Alighieri (1824-1906), la romanza “Il Bacio” divenuto presto un motivo di grande successo sia in Europa che in America. Patriota l’Arditi, patriota la Piccolomini che tornata a Firenze nel 1859 partecipò ad una serata patriottica al Teatro Pagliano, Teatro Verdi dal 1901, esibendosi per promuovere una raccolta di fondi destinata all’acquisto di armi per i patrioti garibaldini. Il patriottismo dell’Arditi era tra i più accesi e riconosciuti dall’opinione pubblica in un personaggio di notorietà internazionale: nel 1864 Giuseppe Garibaldi, ancora claudicante per la ferita ricevuta in Aspromonte, giunse a Londra, su invito del Governo inglese, accolto dalle acclamazioni di una folla di 500.000 londinesi e dal Duca di Wellington che gli donò un binocolo. Recatosi all’ Her Majesty Theatre dove l’Arditi dirigeva la “Lucrezia Borgia” di Donizetti, questi, prima di dare inizio alla rappresentazione gli dedicò, tra le ovazioni degli italiani presenti in sala, l’esecuzione dell’Inno a Garibaldi e, in aggiunta, tra il primo ed il secondo atto dell’opera, fece eseguire in suo onore dal Coro e dall’Orchestra, “La Garibaldina” di cui ne era egli stesso l’autore e che recitava: “Madre Italia vendetta, vendetta!/Siamo uniti per l’ultima guerra;/accorriamo dell’Alpi alla vetta/che l’odiato straniero ancor serra”. Un’altra marcia militare dell’Arditi “O Garibaldi nostro salvator” sarà eseguita il 16 aprile all’Italian Reception Committee, al Crystal Palace, in un altro concerto che il compositore dedicherà al Generale durante il periodo della sua permanenza nella capitale londinese.

Giuseppe Verdi e Luigi Arditi vanno, dunque, considerati due attivisti del patriottismo italiano pubblicamente impegnati e riconosciuti in quanto tali nel mondo politico/culturale sia in Italia che fuori dai confini nazionali.

Tornando alla nostra boite à musique possiamo con una certa sicurezza datarla intorno alla metà degli anni ‘60, il Bacio di Arditi è, infatti, una composizione del 1860 e considerando qualche anno prima che diventi effettivamente popolare possiamo ipotizzare, con una buona approssimazione, il 1865 come anno di fabbricazione; questo ci consente di affermare che la produzione di questi oggetti ha avuto luogo per l’intero periodo di durata del II Impero.

La vera domanda che però non possiamo esimerci dal porci è sul perché due melodie di due affermati compositori italiani, noti per il loro estremismo patriottico nazionale, siano state inserite in un oggetto del culto napoleonico del II Impero francese.

La risposta a questo interrogativo può essere duplice: è possibile sia stato un caso: due melodie molto note ed amate dal pubblico, due hits dell’epoca, sono state inserite in un carillon per aumentare il valore e l’appetibilità commerciale dell’oggetto; oppure l’inserimento delle due melodie ed il diretto riferimento ai due compositori italiani politicamente schierati è una scelta voluta per un oggetto destinato a contenere un messaggio politico il cui significato deve essere cercato nel clima e negli avvenimenti  di quegli ultimi anni del secondo Impero.

La questione italiana era stata un lungo tormentone della politica estera francese ed, a fasi alterne, aveva dato prestigio o aveva messo in crisi l’autorevolezza della persona e del Governo di Napoleone III. L’opinione pubblica nazionale si era trovata spesso divisa su posizioni contrapposte: repubblicani e socialisti avevano sempre appoggiato l’intervento francese in favore della libertà e dell’unità italiana criticando ferocemente il Governo ad ogni intervento in favore del potere temporale del papato e soprattutto per l’intervento militare del ‘49 contro la neonata Repubblica Romana; il partito cattolico, variamente inteso nelle sue fazioni, molto ben rappresentato nell’entourage politico più vicino all’Imperatore e tiepido nei confronti dell’unità del paese d’oltralpe, si era, al contrario, sempre speso in difesa del Papa. Sottoposto a pressioni contrapposte Napoleone III, mai dimentico dei suoi trascorsi giovanili e indubbiamente affezionato all’antica patria d’origine della sua famiglia, si era visto costretto ad una politica spesso ondivaga e con risultati che finivano per scontentare tutti, tanto a destra quanto a sinistra, sia in Francia che in Italia. A metà degli anni ‘60, in un’atmosfera da fine regno è in atto una crescita dell’opposizione radicale all’Impero, repubblicani e socialisti e il movimento operaio, che entra prepotentemente in scena sulla scorta di un processo ormai inarrestabile di politicizzazione, pur divisi sulle grandi questioni strategiche, sono uniti da una comune volontà di farla finita col regime imperiale. Per queste forze politiche, vecchie e nuove, della sinistra francese,   la questione italiana era un terreno di confronto unitario condiviso anche con quei circoli bonapartisti che avevano come riferimento Gerolamo Napoleone (1822-1891) detto le Bonaparte rouge, cugino dell’Imperatore, genuinamente anticlericale ed acceso sostenitore della libertà e dell’indipendenza italiana.

Al Congresso per la Pace, tenutosi a Ginevra nel settembre 1867, Giuseppe Garibaldi, che ne fu Presidente onorario, intervenendo contro “quella istituzione pestilenziale che si chiama Papato” e annunciando la sua prossima entrata in guerra, una guerra giusta perché fatta in nome degli “oppressi e contro gli oppressori”, raccolse grandi consensi tra i presenti e soprattutto tra i delegati francesi che appena tornati in patria organizzarono imponenti manifestazioni unitarie contro l’invio di soldati in Italia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Due mesi dopo, il 3 novembre, il disastro garibaldino a Mentana ad opera degli chassepots francesi. Eugène Rouher (1814-1884), Presidente del Senato e consigliere di Napoleone III per la politica estera, il 5 dicembre in un intervento al Corpo Legislativo dichiarerà: “L’Italie ne s’emparera pas de Rome. Jamais! Jamais, la France ne supportera cette violence faite à son honneur et à la catholicité”.

Alla luce del clima di grande divisione e scontro politico in atto in Francia alla metà degli anni ‘60, l’inserimento nella scatola musicale delle due melodie di Giuseppe Verdi, ricordiamo che la marcia del Nabucco evocò nell’immaginario contemporaneo per identificazione quella del popolo italiano verso la libertà, e di Luigi Arditi, entrambi patrioti ed attivisti del movimento politico risorgimentale, potrebbe far presupporre dietro la fabbricazione dell’oggetto una precisa volontà di posizionarsi nel dibattito e nella lotta politica in corso a favore dell’Unità italiana e contro il regime imperiale.

Se questa nostra supposizione fosse nel vero la nostra boite à musique uscirebbe dall’anonimato della cosa per diventare un oggetto di notevole interesse testimoniale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Domenico Lentini

 

 

 

 

 

 

 

 

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