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LE STORIE NAPOLEONICHE
CORRISPONDENZE INTERNAZIONALI
Murat, teoria della sovranità
Principe Carlo Murat
Laureato in giurisprudenza all’Alma Mater Studiorum di Bologna
All’uscita est del centro di Tolentino c’è una zona commerciale dominata da rotatorie, tante quante nella campagna francese. La via Sandro Pertini vi si insinua, un filo di bitume perso da una betoniera. È fiancheggiata da masse anonime di lamiere, intasata da flussi di veicoli con l’aria condizionata e ovunque il sole estivo si riflette sulle Marche. L’iper-mercato La Rancia evoca, nella mente del viaggiatore, il prefisso greco per designare l’eccesso della nuova Tolentino. Abbiamo camminato di un passo franco per centinaia di chilometri, con l’aiuto di alcune linee ferroviarie, una delle quali tra le più alte d’Europa, nota come il "Transiberiano" italiano, che attraversa la maestosità dell’Abruzzo, dopo aver scalato il Monte Cassino, onorato il maresciallo Juin e l’eroismo francese, pensato ai coraggiosi uomini del Secondo Corpo polacco, il caso volendo che ne seguissimo il cammino più tardi, ed essere andati a dormire insieme a dei monaci. Il mio compagno di viaggio è un Guascone, figlio della terra di Enrico IV, fiero delle sue origini, tenace di fronte al cammino, e che non ha avuto nemmeno un attimo di esitazione nel seguire la cavalcata del Re Murat da Napoli a Tolentino, proprio come un moschettiere non si sarebbe mai chiesto se tramortire o meno delle guardie di Richelieu. Nella "vecchia" Tolentino, perlustrata per un’intera mattina, abbiamo cercato le tracce della famosa battaglia tra gli austriaci guidati dal barone Bianchi e i napoletani esaltati dall’ardore di Murat, che aveva cercato di portarli al di là della storia italiana su una riva mai attraversata, come Cesare davanti al Rubicone. Ricerca vana. Dopo aver percorso in lungo e largo gli stessi luoghi, naturalmente, dei carabinieri con occhiali neri ci hanno arpionato; rassicurati delle nostre intenzioni, ci hanno indicato La Rancia, dove si è svolta la battaglia, e fatto presente dell’esistenza di un monumento. È dunque il pomeriggio quando via Sandro Pertini con le sue meraviglie, si getta nella SuperStrada 77 e, alla sua fine, finalmente appare un piccolo tumulo affiancato da una scalinata. Di fronte si trova un grande deposito industriale per pezzi di ricambio delle caldaie, e la strada che porta alla A14 in direzione di Bologna. Saliamo. In cima si apre uno spazio circondato da cipressi che preservano il monumento bianco. Dietro, tutta una collina piena di vigne. Leggeremo, più tardi, che si tratta dell’antico cimitero dei morti italiani della battaglia della Rancia, meglio conosciuta come Tolentino, dove ogni ceppo di vite ricorda un soldato caduto per l'Italia. Il compagno Guascone si allontana per meditare sul destino degli austriaci e scrivere ai suoi amori in Francia mentre, di fronte a questo paesaggio che copre la gloria, il pronipote del Re Murat vede la maestria e il giurista, il potere costituente originario.
Che cos'è questo potere costituente?
Il potere costituente è, come definito da Carl Schmitt, "la volontà politica il cui potere o autorità è in grado di prendere la decisione concreta fondamentale sulla specie e la forma della propria esistenza politica, ossia di stabilire complessivamente l’esistenza dell’unità politica". Concretamente, è, secondo le parole del professore Alessandro Pace, “un potere di fatto, teso all’instaurazione di un nuovo ordine costituzionale”. I due fondamenti del potere costituente sono il suo carattere extra-legale e la novità dell’ordinamento giuridico.
Ovunque esistano delle società, vi sono delle aspirazioni costituzionali, tante quante sono le idee. Tra queste, nella storia italiana, possiamo annoverare l’Unità.
L’Unità, nonostante la semantica, non è esente dalla concorrenza di "partiti costituzionali" favorevoli alla sua realizzazione. Ne guarderemo uno, chiamato per comodità "partito della Rancia".
Escludendo il mondo antico, nel nostro passato "vicino", la data fondamentale di uno dei poteri costituenti originari dell'Unità è il 1231. Ha come stendardo il falco di Federico II di Hohenstaufen.
Dobbiamo tornare indietro di cento anni, quando nacque il regno di Sicilia nel 1130 grazie alla dinastia vichinga degli Altavilla. Comprendeva l’isola della Sicilia, Napoli, la Puglia e la Calabria. Il primo re di Sicilia, Ruggero II, era il discendente di quei vichinghi che, nel IX secolo, cessarono di vendere l’avorio di tricheco e le pelli di foca al momento in cui saccheggi e riscatti apparvero più gratificanti. Avevano scosso così tanto il trono degli ultimi Carolingi che esso vacillò tanto rapidamente quanto i Robertingi lo presero e vi si stabilirono. Eppure, Ruggero ammirava Carlo Magno e fu incoronato re di Sicilia con un decoro che copiava fedelmente l’incoronazione dell’anno 800. Questa sovranità regale della Sicilia, Napoli compresa, era stata legittimata dalla proclamazione del Parlamento di Sicilia, le Assise, così come Hugues Capet era diventato re per acclamazione all'assemblea di Senlis. Essa aveva come ambizione originale quella di Ruggero: l’Impero, la corona d’Italia. Così come i Capetingi, la cui missione esistenziale era di estendere la loro sovranità dal "pré-carré" all'unità francese.
Volendo passionatamente questa corona imperiale per i suoi propri scopi costituzionali, Ruggero riuscì a giocare le sue carte così bene ed a stringere delle alleanze così importanti che il suo nipote, Federico II, ereditò Napoli e la Sicilia da lui e da suo padre, Enrico VI, la corona del Sacro Romano Impero e il titolo onorifico di "Re d'Italia". Un titolo “da inaugurare i crisantemi”, come si direbbe con una formula ottocentesca francese: un posto prestigioso senza alcun potere reale. Questo perché, dalla pace di Costanza nel 1137, il Sacro Romano Impero si era arreso alle fionde e alle frecce delle città italiane e, avendo concesso loro la "libertà", aveva benedetto il tempo delle divisioni sulla penisola.
Nel 1231, dal suo regno di Napoli e Sicilia, Federico II, Re d’Italia, promulgò il Liber Augustalis, noto come la Costituzione di Melfi, sia una legge fondamentale italiana sia una rivoluzione nell’amministrazione con la quale questo re "giacobino" costrinse le città emancipate a centralizzarsi attraverso l'istituzione chiave del "podestà", un governatore civile con ampi poteri militari e amministrativi. Il potere costituzionale napoletano-siciliano unificò l’Italia nel secondo millennio.
Gli Altavilla non resistettero alla scomparsa di Federico II, noto come "il prodigioso trasformatore delle cose", e scomparvero a loro volta. Ritornò la banalità delle leggi del Trattato di Costanza, "l'ordine naturale delle cose".
Dal XII secolo, i pensatori italiani e francesi si sforzarono di laicizzare il potere regale in modo che i poteri costituzionali potessero sfuggire al fatalismo divino. Grandi contemporanei come Federico II in Italia e Filippo Augusto in Francia legiferarono e si emanciparono dalla giurisprudenza di Canossa e dalla supremazia del Vaticano: il Policratico di Giovanni di Salisbury, il De Monarchia Dante, il Difensore della pace di Marsile de Padova, e infine il Principe di Machiavelli.
Fino ai tempi del Principe, l’Italia era completamente occupata dalle sue divisioni, implacabile meccanica delle divisioni, questa legge che vale quella di Newton e che ha reso questa penisola uno dei paesi più belli del mondo, santuarizzando le città.
Mentre Federico II non era più che un’idea costituzionale estinta, i Capetingi avevano annesso la sovranità originaria alla loro corona grazie ad una potente volontà politica e potevano dunque dirigere il loro attivismo verso l’Italia. È il famoso Ingresso di Luigi XII a Genova di Jean Marot. I re dell’anziano "pré-carré" erano attratti dall’eredità degli Altavilla.
Fin dal XIII secolo gli Angioini, ramo dei Capetingi, avevano preso il regno di Napoli e Sicilia, dando a pensare che il principio dell’Unità, doppiamente ereditato dalla missione capetingia e dal potere napolitano-siciliano dei tempi di Ruggero e Federico II, avrebbe continuato a vivere. Non fu così. Nel XV secolo, gli Aragonesi sostituirono gli Angioini e i primi Capetingi rivendicarono l’eredità dei cadetti. Attraversando le Alpi, Carlo VIII e Luigi XII perseguirono la loro logica profonda: estendere la loro sovranità.
Ma la realtà degli equilibri di potere, dei giochi dei principi del Rinascimento, portò ad un accordo pragmatico: lo smembramento del Regno di Napoli tra Aragonesi e Francesi con il Trattato di Granada del 1500.
È proprio quando un principio viene mutilato che esso mostra tutta la sua veemenza e la sua resistenza. Ogni principio costituente originale necessita di una sovranità. Storicamente, "la sovranità era prima di tutto la qualità di un capo", scrive il professore di diritto pubblico Benoît Plessix. Il capo apparve in Italia nello stesso momento in cui il potere costituzionale napolitano-siciliano veniva annientato; ed era un grande capitano. Nel 1501, Cesare Borgia fu il primo ad entrare a Napoli e, accolto dall’acclamazione del popolo, capì questo principio costituente italiano e fece voto di raggiungere l’Unità buttando fuori dalla penisola gli Aragonesi e i Francesi. Da quel momento in poi, "il progetto doveva diventare la più forte ambizione di Cesare, la grande speranza alla cui realizzazione sarebbero stati subordinati, d'ora in poi, tutti i suoi passi" scriveva il suo biografo Marcel Brion. Appena entrato a Napoli, Cesare mise in moto le città italiane. Il Vaticano pagò la guerra, Alessandro VI creò dodici nuovi cappelli cardinali per rimpinguare il Tesoro. Un rumore di terrore si diffuse nelle città mentre Cesare il Valentino, il Principe di Machiavelli, marciava. Fece cadere Rimini e Pesaro senza sparare una palla di cannone. Il consenso popolare lo aiutava. Prese Faenza, fu misericordioso con il suo capitano Astorre Manfredi e conquistò il popolo che lo lodava. "Se avessi questi faenziani con me, sarei il padrone dell'Italia", disse. Sotto il suo giogo: Castel Bolognese, Piombino, Urbino, Bologna, Firenze. Jean d'Auron, cronista di Luigi XII, dipinse l’ammirazione che suscitavano le cariche di Cesare. Priuli scrisse: "Alcuni vorrebbero fare di Cesare il Re d’Italia, altri vorrebbero farlo imperatore, perché riesce in una tale maniera che nulla avrebbe il coraggio di rifiutarglisi”. Cesare aspettava che i francesi si ritirassero dall’Italia per conquistare Milano e Napoli. Il principio costituente italiano si era risvegliato dal desiderio di fare di Napoli una Polonia del 1773. Infine, il caso, aiutato dal piacere di Luigi XII, aveva depositato sullo stemma di Cesare i tre gigli dell’espansione del "pré- carré".
I sostenitori della divisione assassinarono il tesoriere dell’Unità, Alessandro VI, il tendine della guerra, Cesare, morì in battaglia in Navarra. Il tempo dei signori ritornò.
Il partito costituzionale napolitano-siciliano si estinse. In Francia, con l’avvento dei Borbone, da Enrico IV a Luigi XIV, passando per Richelieu, i pensatori del diritto pubblico regale teorizzarono la sovranità attraverso la legittimità di un monarca assoluto, ampliando ulteriormente i suoi "segni di sovranità" creati da Jean Bodin. Con lui, Charles Loyseau e il suo Traité des Seigneuries e Cardin le Bret, De la souveraineté du Roy.
A Napoli, i Capetingi erano entrati nel Palazzo Reale di soppiatto. In questo XVIII secolo, i Borbone di Napoli mantenevano un regime basato sul potere dei grandi feudatari, condividendo la sovranità del Re con alcuni baroni terrieri, ben lontano dal diritto pubblico regale francese.
Poi arrivò la Rivoluzione Francese, decoro eccezionale di un trasferimento di sovranità dal Re alla Nazione. Militante così come lo era stata la sovranità regale francese, la sovranità nazionale travolse l’Europa.
Nel 1799, a Napoli scoppiò una rivoluzione ispirata alla Nazione francese, che cacciò il Re e i baroni, e che fu a sua volta soffocata e punita dal cardinale Ruffo.
Il trasferimento della sovranità, condivisa tra il Re e i feudatari, ebbe luogo durante il "decennio francese". Più esattamente a favore del solo Murat. Infatti, Giuseppe Bonaparte, considerando correttamente la sua funzione voluta da Napoleone, anche se potente riformatore grazie all’aiuto dei funzionari francesi, fu Alto Commissario dell’Impero a Napoli, come lo sarà in seguito in Spagna. Ne sono testimoni i continui disordini napoletani dal 1806 al 1808, poi, come la descrisse Tolstoj, "la guerra dei patrioti" contro il suo regime in Spagna. Il successo del regno di Murat, che si spiega alla luce dell’antica aspirazione del potere costituente a Napoli, è quello di aver distaccato la sovranità borbonica e feudataria, che aveva tante facce quanti erano lazzaroni, quei feroci controrivoluzionari, che la trasferirono nel 1808 a Murat.
Che cos’era questa sovranità? Se nel XVI secolo la sovranità di Cesare era solo la qualità di un grande capitano, nell'Ottocento esistette attraverso l’Amministrazione, nell’accezione proposta da Benoît Plessix, che la descrive come "la sovranità dello Stato in azione": lo Stato moderno in costruzione che, a immagine della volontà urbanistica di Murat, avrebbe illuminato Napoli con migliaia di lampioni. Era quindi il braccio armato di un potere costituente originario, un "potere di fatto, teso all'instaurazione di un nuovo ordine costituzionale". Attraverso questo prisma dell’Amministrazione si comprende l’emancipazione di Napoli da Parigi. Ed è in questo braccio di ferro che si posiziona il famoso decreto del 14 giugno 1811. Murat impose il criterio della nazionalità a tutta la sua amministrazione, lo stesso che esiste oggi in Francia, in Italia e in tutti i paesi dell’Unione Europea per le funzioni sovrane dello Stato. Napoleone lo censurò, sostenne i "suoi" alti funzionari francesi a Napoli e ricordò a Murat il suo status di Alto Commissario. Ma il "male" era stato fatto, lo Stato in azione aveva cominciato a impennarsi, la sovranità stava venendo alla ribalta. D’ora in poi, la tutela di Parigi sarebbe solo diminuita. I francesi si isolarono intorno a Caroline Murat, unica detentrice della corona secondo le leggi dell'Impero, una sorta di "paese legale" a Napoli. Gli italiani, sempre più numerosi, provenienti da tutta la penisola, spesso anziani repubblicani del 1796, videro risvegliarsi la vecchia potenza napoletana- siciliana. Murat si circondò esclusivamente di italiani nei suoi ministeri e nel Consiglio di Stato dove diventarono maggioritari. Infine, tatticamente, il suo colpo da maestro si chiamò Maghella, il prefetto nominato a Napoli da Napoleone per sorvegliare Murat, e che quest’ultimo riunì discretamente dietro al suo vessillo, il partito dell’Unità. Il prefetto aveva cambiato sovrano, ma i suoi rapporti sugli eventi a Napoli, volontariamente falsificati, continuarono a lungo ad essere lette e assimilate da Parigi.
Fino al 1815, si prepararono a Napoli, sul modello amministrativo napoleonico, i nuovi Liber Augustalis. Delle finanze pubbliche risanate, un’élite amministrativa istruita, "patriottica e italiana", avente già fondato uno Stato moderno, essa stessa ex allieva di funzionari pubblici francesi, accompagnata da delle élite scientifiche (uno dei più moderni laboratori chimici d’Europa si trovava nella capitale) e dell’ingegneria civile (Ecole Polytechnique e Ponts-et- Chaussés di Napoli), una politica di Pubblica Istruzione severa, per un popolo che non ne aveva mai avuto una, l’identificazione dei cittadini attraverso la carta d’identità, una forza di polizia moderna: queste riforme volte a modernizzare l’Italia erano ammirevoli in quanto accettate a Napoli nel quadro di questa "dittatura progressista", per usare la formula di Michel Hecker. Più tardi, solo pochi regimi avrebbero la stessa legittimità per agire in tali proporzioni al Sud, e questo è stato e resterà un problema per qualsiasi potere costituente italiano.
Che cosa successe a questa sovranità dopo la caduta dello Stato Murattiano?
Se pensiamo a come la sovranità francese era stata crudelmente e definitivamente trasferita alla Nazione, cioè l’immagine di Luigi XVI sotto la ghigliottina, il primo principio assassinato in Europa, possiamo capire perché Murat fu, al tempo della controrivoluzione di Napoli, portato fino all’esecuzione nel 1815, il secondo re dopo Luigi. Vi era, in questo atto disperato, "normalmente" inutile, barbaro quanto la ghigliottina, la necessità, l’ammissione della necessità, di un trasferimento della sovranità al Re e ai feudatari. Un ritorno impossibile perché la sovranità era stata essenzialmente trasformata dallo Stato Murattiano. La sovranità non avrebbe più accettato il governo del XVIII secolo. Nella vicina Francia, Luigi XVIII capì che il Re era cambiato quando suo fratello, il conte di Artois, difese l’antico diritto pubblico. Senza nominarla, fu questa sovranità che l’ultimo re di Napoli, Francesco II, travolto dal XIX secolo, ricercò a lungo nella sua incondizionata ammirazione, fraintesa dalla sua famiglia, per il re Murat. Questa sovranità arrivò davanti a Francesco II con Garibaldi, tanto che egli capì subito e abdicò: mai transizione di potere fu così pacifico come nel 1860, grazie all'intelligenza dell'ultimo Borbone che comprese che la sua dinastia non era più sovrana dal 1815.
Questa sovranità, assente dal 1815, è l’antico principio napoletano-siciliano dell’Unità che mancava a un’Italia in tumulto. Non riapparve che dopo mezzo secolo con Garibaldi. È questo principio che Gugliemo Ferro evocava parlando del "vuoto, l'immenso vuoto" che regnava in Italia dal 1815 in poi.
Murat aveva ricevuto per acclamazione la sovranità e di fatto esercitò questo potere costituente originario che, irrimediabilmente, nel potere costituzionale napolitano-siciliano, al di là delle epoche, si estese sulla penisola. È il motore di questa sovranità che si ritrova nella proclamazione di Rimini, primo atto del Risorgimento e della modernità italiana.
Quale fu il partito vincente nell’Unità?
Se nella storia del regno di Napoli e Sicilia vi fu un’aspirazione all’Unità, nel 1815-1816 apparve un nuovo partito costituzionale risorgimentale; e vi riuscì. L’Italia era allora l’"espressione geografica" designante dieci Stati. I due stati chiave erano il regno di Lombardo- Venezia, il più potente del Nord, creato al Congresso di Vienna e annesso alla corona austriaca, e il suo vicino, il regno di Piemonte-Sardegna, esteso nel 1815 ai porti strategici di Genova e La Spezia. È qui che nacque una nuova aspirazione costituzionale dell’Unità nella dinastia sabauda. Il "giovane" ministro austriaco Metternich, nemico del Risorgimento, già nel 1815 legittimò i partiti unitari dando loro della considerazione, così come, in seguito, il "vecchio" ministro sconsigliò all’imperatore Ferdinando I d’Austria qualsiasi intervento militare in Italia negli anni Cinquanta del XIX secolo, convinto che questo facesse il gioco dell’Unità.
Perché, nel 1815, sostenne Murat contro gli inglesi e i Borbone di Francia e di Napoli?
Offrì asilo al re Murat a Vienna per usarlo, se necessario, come carta da giocare contro il futuro potere costituzionale del Piemonte-Sardegna: lasciar andare la briglia dell’Unità al Sud per disunire i sostenitori dell’Unità al Nord. Più concretamente, aveva previsto di tenere sul trono il figlio di Murat, Achille, con una reggenza della regina Carolina Murat, con la quale Metternich, "la Farnesina austriaca", aveva i migliori rapporti. Con questi due regni, il Lombardo-Veneto a nord e la reggenza di Napoli a sud, l’Austria avrebbe mantenuto la sua influenza su tutta la penisola e limitato il principio costituzionale dell’Unità.
Ma il principio costituzionale del Nord, guidato dai Savoia, vinse contro l’Austria, così come contro il Sud. Costretto dal rapporto di forze in gioco, Garibaldi cedette Napoli il 26 ottobre 1860, salutando Vittorio-Emmanuele come re d’Italia.
Da allora, l’Unità raggiunta ha incontrato delle forti resistenze: le proteste operaie contro il suffragio censitario, l’insostenibile questione budgetaria del nuovo Stato, le successive jacqueries dei contadini siciliani, il sentimento di "confisca del potere da parte dei benestanti", come scrive il storico Gilles Pécout. In particolare, all’inizio del XX secolo, la corrente dei meridionalisti, gli insoddisfatti del Sud, che cercarono costantemente di sostituire lo "Stato storico".
A Tolentino, guardiamo più precisamente l’iscrizione sul marmo purissimo ma scheggiato del monumento degli anni 60: “ Qui tra fiume e monte nel nome d’Italia e per le armi di Re Gioacchino il 2-3 maggio 1815 divampò la battaglia il voto di Alessandro Manzoni divinava foriera di nuovi destini per l’Italia rediviva rifatta consapevole che un nome illustre è meno testimonianza di un passato che severo monito per l’avvenire”. Un avvertimento contro il “grande capitano” e la sua Amministrazione, con l’intento di promuovere sia la potenza dei deputati, sia l’emancipazione degli agenti regionali: quelle forme istituzionali dell’Italia del dopoguerra previste per risolvere la questione del Risorgimento.
Quest’avvertimento rispecchia fedelmente lo spirito dell’Italia degli anni 60, ancora scossa dal totalitarismo mussoliniano.
Eppure, il solo Piero Calamendrei, eminente civilista, difendeva all’Assemblea Costituente del 1946, ove era deputato, un regime presidenziale come il solo capace di provvedere delle istituzioni per governare con franchezza, e di rispondere alla “rivoluzione mancata” del 1945, a tutto un passato costituzionale risorgimentale.
Era quest’ultima, una voce lontana e affiliata al potere costituzionale napolitano-siciliano, cioè hohenstauffiano, borgiano, murattiano e garibaldino, sconfitto e incompleto, ma forse non privo di una certa idea di modernità?



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